Come si sa, Raymond Chandler, come molti suoi
colleghi del tempo, si diede da fare anche come sceneggiatore,
nell’industria della celluloide; tuttavia, l’unica sceneggiatura
approntata appositamente per una pellicola cinematografica, fu quella
per The Blue Dahlia, “La dalia azzurra”, per la regia di George Marshall.
George Marshall era regista piuttosto eclettico:
spaziò dal cinema comico (“Il compagno B”, con Stan Laurel e Oliver
Hardy, nel 1932; parecchi films della coppia Dean Martin Jerry Lewis) al
cinema western (La Conquista del West, regia anche di H.Hathaway e John
Huston, 1962), al cinema poliziesco (La Dalia Azzurra, 1945), alla
commedia nera (Gazebo, con Glenn Ford e Debbie Reynolds, 1959).
Nel nostro caso firma un delizioso film, di quella
frangia di films noir degli anni ’40, che rispetta sì la canonicità di
films similari (la donna infedele, l’uomo tradito, il gangster,
cazzotti, fumo e alcool a profusione, e un bel delitto; e ovviamente
l’innocente che deve provare la sua innocenza contro tutti) ma la
arricchisce col motivo molto sentito in quegli anni, dei reduci,
ritornati a casa da eroi e poi impossibilitati da circostanze diverse a
reinserirsi nel mondo di ogni giorno. Sembrerebbe quasi la trama di
Rambo: anche lì, nel primo dei 4 films, c’era il tema del mancato
reinserimento nella vita di ogni giorno del reduce, rifiutato da quella
stessa gente che avrebbe invece dovuto accoglierlo come un eroe.
Qui di reduci ce ne sono tre : il capitano
dell’aviazione della marina, Johnny Morrison, che è il protagonista
della storia, il suo sottoposto e suo amico Buzz Wanchek, che a causa di
una pallottola nel cranio soffre di allucinazioni, forti emicranie,
momenti di assenza e forti amnesie, e il loro amico George Copeland.
Johnny torna a casa, sperando che la moglie Helen lo stia aspettando (ma
in certo senso presagendo il contrario), e la trova nel bel mezzo di
una festa nel suo appartamentino, nel bungalow di un complesso
alberghiero, tra amici che non conosce, e che lo tradisce con un certo
Eddie Harwood, proprietario di un locale, The Blue Dalia.
Ma non è tanto lo scoprire che sua moglie ha un
amante quanto che lei è stata la causa della morte del loro unico
figlio, la molla che innesca una lite tra i due coniugi, al termine
della quale, Johnny lascia per sempre la moglie, che avrebbe potuto
uccidere, in compagnia della sua pistola d’ordinanza, una 45.
Piove a dirotto: Johnny esce da un ingresso
secondario e sparisce. Per strada trova casualmente – guarda le
coincidenze – una bella bionda che gli da un passaggio in macchina
(Joyce Harwood) a sua volta moglie dell’amante di Helen. Ma mentre i due
viaggiano in auto, qualcuno pensa bene di ammazzare la moglie di
Johnny, che si trova così ad essere l’ideale sospettato dell’omicidio. A
questo punto lui deve cercare in tutti i modo di trovare l’assassino di
sua moglie e provare la sua innocenza: lo aiuterà proprio Joyce, di lui
invaghitosi, e che ha rotto col marito.
A questo punto, Johnny entra in collisione con
Eddie ed il suo socio, un farabutto che con lui ha rapinato un fattorino
di banca per niente uccidendolo: i due sono ricercati da molti anni, ma
hanno cambiato i loro nomi e oramai vivono al riparo da ogni indagine,
finchè Johnny non capisce, messo sull’avviso dal retro di una foto,
presa a casa della moglie, che Eddie è in realtà il falso nome dietro
cui si cela un assassino: sembrerebbe a questo punto che i due fossero
coinvolti nell’omicidio della moglie, ma così non è. E così il finale
avrà l’imprevisto di una confessione inaspettata, così come il
riconoscimento del fatto che quella che pareva una confessione (Buzz
Wanchek non riesce a mettere a fuoco cosa abbia fatto la notte
dell’omicidio, ed è preda di ricordi terribili: Helen che strappava i
petali di un fiore uno ad uno, una musica assordante e un rumore
angosciante) in realtà non lo è.
Ovviamente finirà il film con i due protagonisti
Johnny e Joyce che si salutano ma quel che si dicono fa pensare che di
lì a poco si rivedranno: ampliano quello che si erano detti quando si
erano conosciuti: “Non dovrebbe raccogliere sconosciuti quando è sola”, diceva lui. E lei rispondeva: “Ma tutti quelli che conosco erano degli sconosciuti al principio.”
Straordinario Chandler! Per non parlare della magnifica battuta, una
delle tante, che Helen la moglie fedifraga beccata dal reduce appena
tornato dalla guerra, dice ai suoi ospiti: “Signore e signori, forse volete andarvene. Mio marito vuole rimanere solo con me. Probabilmente vuole picchiarmi”.
Il film, ottimamente diretto ed interpretato, entrò
nella cinquina dei papabili all’Oscar per la migliore sceneggiatura nel
1946. Per quanto riguarda invece i protagonisti, bisogna soprattutto
menzionare Johnny e Joyce, che erano Alan Ladd e Veronica Lake, coppia
molto affiatata all’epoca. All’epoca la Lake era sulla cresta dell’onda,
tanto che la pettinatura che lei aveva lanciato (una frangia cadeva su
un occhio nascondendolo) aveva contagiato moltissimo il pubblico
femminile; siccome quei capelli così lunghi avevano causato non pochi
incidenti, soprattutto tra le operaie, i cui capelli venivano attirati
fra gli ingranaggi dei macchinari, il governo chiese alla Lake di
cambiare pettinatura.
Ladd invece, pur facendosi apprezzare, soprattutto
perché dei films a budget ridotto riuscivano sempre a vendere molto,
divenne veramente famoso solo qualche anno dopo con l’interpretazione de
Il cavaliere della valle solitaria.
Il terzo attore presente nella locandina assieme a
Ladd e Lake, era William Bendix, grande caratterista dell’epoca, il cui
ruolo nel film non sembrerebbe essere sullo stesso piano dei primi due: e
allora perché veniva messo accanto a loro? Per la popolarità? Bendix è
vero che qualche anno prima era stato candidato all’Oscar per la
migliore interpretazione di attore non protagonista in Wake Island (1942) di John Farrow, ed era stato assieme a Ladd e Lake, interprete di The Glass Key (1942) da Dashiell Hammett, con la sceneggiatura di Jonathan Latimer, e poi magnifico interprete di Lifeboat di
Alfred Hitchcock (1944), un film a metà bellico e psicologico; ma, qui
sembrebbe avere un ruolo tutto suo. Infatti, man mano che procede il
film, una parte non indifferente verte sulla caratterizzazione del
reduce con una scheggia nel cervello e preda di forti amnesie e
allucinazioni, che per come si comporta e per quello che dice, ad un
certo punto sembrerebbe quasi essere nel film l’assassino. In realtà si è
saputo che Chandler gli aveva destinato in effetti la parte
dell’assassino (avrebbe dovuto uccidere la fedifraga Helen, perché molto
attaccato al marito Johnny), finchè non gli venne dalle autorità
militari americane opposto il loro rifiuto che a un reduce e per di più
invalido, potesse essere attribuita la caratterizzazione di un omicida. E
così Chandler cambiò l’identità dell’assassino. Ma da come il film
procede, ripeto, a me è sembrato che questo cambiamento di rotta non
fosse avvenuto prima dell’inizio del film, ma in corso d’opera: infatti,
il dramma tende verso Buzz, che sarebbe un colpevole ideale, e con una
forte connotazione psicologica, fin quando con una brusca virata, alla
fine, viene individuato il meno probabile degli assassini e con una
motivazione veramente risibile: il ricatto: l’assassino l’avrebbe
ricattata per la sua storia con Eddie, minacciando di rivelare tutto al
marito, ma lei si sarebbe rifiutata e allora lui, avendo paura che lei
rivelasse tutto a Eddie, l’avrebbe uccisa; il tutto quando oramai Helen
era stata lasciata per sempre da Johnny e aveva rotto con lei anche
Eddie, interpretato da Howard Da Silva, un attore che a metà degli anni
’40 sembrava essere in ascesa, soprattutto dopo la partecipazione a The Lost Weekend di Billy Wilder (1945); ma assieme a tanti altri, fu posto sotto inchiesta dalla Commissione McCarthy, l’ House Un-American Activities Committee (HUAC),
per cui rientrò nel mondo della celluloide solo alla fine degli anni
‘50. Eddie, è tuttavia, nella parte del cattivo, un personaggio molto
meno negativo di quanto non appaia il suo socio nella gestione del night
e anche lui colpevole quanto lui, Leo, interpretato veramente in modo
magnifico da quel Don Costello, interprete anche di Here Comes Mr. Jordan:
a dire il vero Don Costello morì a 44 anni e questo film fu il suo
canto del cigno. Ma se si vede bene i tre interpreti del triangolo, Alan
Ladd, Veronica Lake e Doris Dowling (Helen) nella realtà sortirono
sorti differenti: mentre Doris Dowling, nel film finita uccisa,
conosciuta per interpretazioni tutte molto simili, da femmina traditrice
e fedifraga, abbandonò gli States agli inizi degli anni ’50 venendo
proprio in Italia e facendosi una fama nei circoli e tra gli
intellettuali, partecipando a pellicole importanti tra cui soprattutto Riso Amaro di Dino Risi, opposta a Silvana Mangano, e in Otello
di Orson Welles, Alan Ladd e Veronica Lake, finirono male, distrutti
dalla depressione, e dal non sentirsi pienamente amati e accettati: Ladd
morì per un micidiale cocktail di alcool e pasticche, e la Lake fu
vittima di paranoia schizofrenica, venendo ricoverata più volte in
cliniche psichiatriche, fino alla morte avvenuta per epatite.
E Raymond Chandler?
Judith Freeman, “The Long Embrice”, Random House
(2008), afferma che la sceneggiatura, questa meravigliosa sceneggiatura,
Chandler l’avesse interrotta e non sapesse più come continuarla e
finirla, perché diventato astemio per una cura dal troppo alcool che
mandava giù, non riusciva a rodare più, quasi che fosse l’alcool la
benzina del motore del suo cervello. Fatto sta che si accordò per finire
la sceneggiatura in cambio di una cassa di bottiglie di scotch whisky; e
ogni giorno ne beveva, finchè dopo alcune settimane riuscì a terminarla
e a consegnarla.
Un’ultima curiosità: Raymond Chandler avversò in
molte occasioni il Giallo Classico, degli Anni Venti e Trenta (la
Christie, la Sayers e soprattutto tra gli americani Van Dine e suoi
seguaci) e il modo di intendere l’indagine poliziesca, preferendo il
realismo alla fantasia, gli ambienti suburbani a quelli dell’agiata
borghesia imprenditoriale e dell’aristocrazia bancaria. Comunque in un
passo del film, notiamo come questo intellettuale del romanzo
poliziesco, pur avversando a parole i suoi colleghi più sensibili
all’indagine cerebrale, ne copiasse probabilmente a livello subliminale
gli stilemi. Infatti, la foto della moglie che egli toglie dal
portafotografie dove c’è anche quella del figlio morto, riporta dietro
delle parole: ” Johnny, of anything happens to me, Eddie Harwood’s
name used to be Bauer. The New Jersey State Police would like to know.
The charge is murder. Helen”. La moglie l’ha scritto perchè temeva di essere uccisa da Eddie. Poi è morta. E’ quindi o non è questo messaggio un dying message, un “messaggio del morente”, marchio di fabbrica di Ellery Queen ?
P. De P.
Nessun commento:
Posta un commento