Tratto dalla omonima pièce teatrale di Agatha Christie – a detta della stessa scrittrice britannica – fu il miglior film tratto da un suo lavoro.
Billy Wilder, quando lo firmò, era già notissimo:
emigrato in USA dalla Germania (era di famiglia ebraica: suo madre, il
suo patrigno e sua nonna morirono ad Auschwitz), aveva potuto, grazie
agli aiuti di altri emigrati di origine ebraica approdati al mondo del
cinema, tipo Peter Lorre, continuare l’attività di sceneggiatore che già
aveva intrapreso in Germania, facendosi ben presto un nome prima come
scrittore imprestato agli studios, poi come regista. Nel 1945, diresse
il noir dei noir, La fiamma del peccato, con sceneggiatura di Raymond Chandler, che ebbe la nomination per la migliore regia, vincendo l’anno dopo i suoi primi due Oscar, in quanto sceneggiatore e regista, con Giorni perduti (1945),
un film drammatico sul disadattamento dei veterani di guerra. Il terzo e
il quarto Oscar (sceneggiatura e regia) giunsero poi, assieme, nel
1950, con un altro famosissimo noir, Viale del tramonto, con William Holden e Gloria Swanson.. A questo seguirono prima L’asso nella manica, e poi Stalag 17 ( con il quale William Holden conquistò l’Oscar come migliore attore),
Sabrina con Audrey Hepburn, Humphrey Bogart e William Golden e Quando la moglie è in vacanza, con Marilyn Monroe.
Insomma..un regista di gusti eclettici, che nel 1957 diresse Testimone d’accusa.
Per i due ruoli principali Wilder aveva chiesto altri due attori: per la parte di Leonard
Stephen Vole, il suo William Holden, che rifiutò (seguito da altri tra
cui Kirk Douglas, Roger Moore, Gene Kelly e persino Jack Lemmon); per
quella di Christina, sia Rita Hayworth che Ava Gardner.
Tuttavia i due attori che ottennero la parte, Tyrone Power e Marlene Dietrich erano molto famosi all’epoca: per Tyrone Power, Testimone d’accusa fu il suo ultimo grande successo, perché, durante le riprese di Salomone e la Regina di Saba,
film che iniziò a girare dopo, morì. Aveva già mietuto successi negli
anni ’30 e ‘40 (Jessie James il bandito, 1939; Il segno di Zorro (1940);
Sangue e Arena (1941); Il cigno nero (1942); La lama del rasoio (1946),
affermandosi per la sua prestanza fisica e bellezza, pur non
demeritando nemmeno in lavori teatrali: dopo la parentesi bellica in cui
aveva prestato servizio come aviatore nei Marines, aveva alternato i
suoi ruoli di attore cinematografico con quelli di attore di teatro,
riportando grandi successi prima con John Brown’s Body di Charles Laughton (1953) e poi, dalla fine del 1954 alla metà del 1955, con The Dark in Light Enough; e poi nel 1957 col film Il sole sorge ancora, tratto da un romanzo di Hemingway. Insomma una carriera con grandi trionfi, ma non coronata dall’Oscar.
Stessa sorte per la Dietrich che nel 1929 si era imposta con L’Angelo Azzurro di Josef von Sternberg: dopo essersi trasferita in USA, nel 1940 aveva interpretato Marocco assieme a Gary Cooper, venendo nominata all’Oscar. Erano seguite poi altre grandi interpretazioni, da Shangai Express (1932) a L’Imperatrice Caterina e Capriccio Spagnolo
(1935), films che affermarono la sua fama (che si nutriva anche di suoi
atteggiamenti anticonformistici: fu la prima attrice a vestirsi da
uomo; era dichiaratamente bisessuale: aveva destato scalpore un suo
bacio omosessuale) e la contrapposero a Greta Garbo.
Negli anni ’50 era sul viale del tramonto. Comunque
la sua partecipazione al film di Wilder fu tale che molti le davano già
assegnato l’Oscar, che invece non conquistò.
Insomma due dei tre interpreti principali erano di
grande levatura; e ancor più grande era quella di Charles Laughton, che
fra l’altro aveva già conquistato l’Oscar, per Le sei mogli di Enrico VIII,
nel 1933. Laughton da quel momento aveva accelerato la propria
carriera, conseguendo una serie di successi in ruoli quasi sempre
negativi, da La tragedia del Bounty (1935) di Franck Lloyd, a La taverna della Giamaica di Alfred Hitchcock. Aveva poi interpretato Notre Dame di William Mieterle, Questa terra è mia di Jean Renoir, Il caso Paradine di Alfred Hitchcock, alternando la carriera di attore a quella di regista con La morte corre sul fiume ( 1955), a quella di attore teatrale, con il Galileo di Bertold Brecht.
Era quindi un attore completo, e già
appagato: ma ancora una volta, come già era accaduto altre volte,
soprattutto con il già ricordato Le sei mogli di Enrico VIII, aveva la possibilità di recitare al fianco della moglie, Elsa
Lanchester, abile interprete, già ballerina e allieva di Isadora
Duncan, caratterista che aveva sposato sin dal 1929 Laughton, e si era
già messa in luce anche in altri ruoli, soprattutto quello della moglie
di Frankenstein, nell’omonimo film, conseguendo una nomination all’Oscar
per Le due suore. Insomma una coppia affiatata.
L’unica interprete del film che Wilder aveva voluto
fortissimamente e imposto alla produzione (e che aveva accettato il
ruolo) era stata l’attrice irlandese Una O’Connor, apparsa in ruoli
cinematografici, connessi quasi sempre a thiriller o film polizieschi o
horror: Murder! di A.Hitchcock (1930), L’Uomo Invisibile e La moglie di Frankenstein, di
James Whale; e che aveva interpretato lo stesso ruolo che ebbe nel
film, quello della bisbetica governante, già nel lavoro teatrale
originale “Testimone d’Accusa” di Agatha Christie, all’ Henry Miller's
Theatre di Broadway, dal 1954 al 1956. Era quindi predestinata a quella
parte cinematografica.
Ma a esser candidati all’Oscar quell’anno, per questo film, invece che la Dietrich, furono
i coniugi Laughton – Lanchester: il primo per l’interpretazione
dell’avvocato difensore sir Wilfrid Robarts, la seconda per quello
dell’infermiera dell’avvocato, ruolo inventato nel film proprio per
permetterle di recitare, che nel lavoro originario non esiste.
La trama è la seguente:
Wilfrid Robarts (Charles Laughton), grande
penalista del foro di Londra è stato ricoverato per un attacco di cuore.
Quando ritorna a casa sua, assistito, anzi tartassato dall’onnipresente
infermiera (Elsa Lanchester) che deve impedire che lui beva brandy e
fumi sigari, cose che gli sono stati vietate per le sue condizioni di
salute, riceve una visita in cui gli viene presentato un certo
Leonard Stephen Vole (Tyrone Power): costui, gli
racconta di essere stato accusato di omicidio per l’assassinio di una
signora, che lui frequentava da un poco di tempo, anche allo scopo di
farle sponsorizzare, con un prestito di duecento sterline, il brevetto
di un frullino da cucina. Lui si dichiara innocente. Robarts
inizialmente, per le sue condizioni di salute,vuol mollare la difesa ad
un altro avvocato suo amico, ma quando questi ha un breve colloquio con
Robarts che gli fa capire che a breve potrebbe essere arrestato (
soprattutto dopo che sul giornale ha letto che il testamento della
vittima prevede il lascito di 80.000 sterline a favore proprio di Vole,
che dice di non saperne nulla), perché per uccidere aveva un movente
abbastanza saldo, e così avviene guarda caso a distanza di pochi minuti.
Dopo che è stato portato via Vole dalla polizia, si
presenta a casa sua la moglie di Vole, Christine Helm Vole (Marlene
Dietrich) che glacialmente gli dice che il marito è ritornato a casa
all’ora in cui veniva altrove commesso l’omicidio; Robarts ricorda alla
donna che in Inghilterra la testimonianza della moglie non vale in
favore del marito, e allora lei gli rivela di non esserne legalmente e
legittimamente la moglie, essendosi sposata mentre un suo primo marito,
tedesco, non gli risltava essere morto.
Durante un successivo approccio con essa, Christine
gli racconta come abbia conosciuto il marito in Germania, durante
l’occupazione alleata, dopo una rissa in un locale in cui lei si esibiva
cantando (la Dietrich, famosa per le sue esibizioni mascoline, anche
qui è vestita da uomo, ma ad un certo punto un soldato un po’ più
alticcio e arrapato degli altri, le strappa una parte dei pantaloni,
mettendo a nudo la gamba di Christine. La scena, pare costata 90.000
dollari fu allestita proprio allo scopo di mettere in luce le splendide
gambe della Dietrich, che altrimenti sarebbero rimaste nascoste); e come
egli in realtà a sua insaputa, non sia affatto il suo unico marito, in
quanto prima di lui ne aveva un altro. E che farà tutto il possibile
comunque per salvarlo.
Fatto sta che si apre il processo e sfilano i vari
testimoni: primo l’Ispettore capo..che racconta come sulla giacca
dell’imputato fosse stato trovato del sangue associabile per gruppo
sanguigno a quello della vittima: la testimonianza viene confutata da
Robarts che ricorda come lo stesso gruppo sanguigno sia quello
dell’imputato, che a suo dire si era tagliato con un coltello. Poi
spicca la testimonianza della vecchia bisbetica governante della sig.ra
Emily French, Janet Mac Kenzie (Una O’ Connor), che racconta come non
sia affatto vero, come sostiene la difesa, che Vole fosse a casa sua
alle 21.25 della sera dell’omicidio, ma che egli alle 22.10 era ancora a
casa della vittima; e che lei aveva sentito, ritornando a casa, che al
di là della porta c’era una discussione animata tra la vittima e lui: la
sua testimonianza
La sua testimonianza viene confutata, con un abile
sotterfugio che dimostra ai giurati come la zitella fosse abbastanza
ipoudente da non poter distinguere se la voce sentita al di là della
porta fosse stata in verità quella del reo o di altra persona.
A questo punto l’accusa presenta il suo asso nella
manica, e sul banco dei testimoni si presenta a deporre..Christine, la
moglie di Vole: solo allora il marito capisce perché la moglie non era
mai andata a trovarlo in carcere. Christine in pratica denuncia il
marito: dice che lui non era vero che fosse rincasato prima, che anzi
era rincasato 45 minuti dopo quello che lui aveva dichiarato e al
momento del rientro la sua giacca era sporca di sangue, e che lui le
aveva confessato di avere ucciso la donna.
Robarts cerca di smontarne la deposizione,
insinuando che se quanto riferito e giurato alle autorità britanniche (
per es. sul suo nubilato prima del matrimonio) era falso (per cui lei
poteva essere accusata di bigamia e falsa testimonianza), sarebbe potuta
essere falsa anche la sua deposizione in quella causa. Ma lei rigiura
che quella è la sacrosanta verità anche dopo che le è stata ricordata la
pena prevista per chi giura il falso.
Inoltre, la pubblica accusa porta a conoscenza
della giuria il fatto che lo stesso Vole era stato notato a braccetto di
una splendida giovane entrare in una agenzia di viaggi ed informarsi su
quelli più costosi e interessanti (cosa che avrebbe avuto senso di fare
se si fosse posseduto un certo ammontare di denaro oppure si fosse
stato in procinto di riceverlo). Insomma, a dirla in breve, il caso è
disperato.
Tra il pubblico, l'infermiera di Robarts è triste e
vicino a lei una bella bruna (che avrà una grande importanza nel
prosieguo) piange e si dispera, quasi inconsolabile : chi sarà mai?
Robarts non sa che pesci prendere, dato che non era
stato informato della vicenda dell’agenzia di viaggi, quando accade
l’mprevisto: riceve una telefonata, in cui una donna, da una delle
stazioni di Londra, gli promette di dargli in cambio di soldi delle
lettere che cambierebbero completamente la situazione processuale in
atto.
In stazione in effetti conoscono una donna volgare
che dice di volersi vendicare di Christine per uno sgarro d’amore avuto
anni prima; e gli consegna delle lettere in cui Christine premedita di
accusare falsamente il marito, che non avrebbe mai acconsentito a
lasciarla andare via, affinché possano impiccarlo e così lei possa
ritrovarsi libera di andar via con un altro, un certo Max ( e con le
80.000 sterline dell’eredità ricevuta dal marito). In aula, viene
richiamata alla sbarra Christine, e Robarts la inganna, dicendole di
aver ricevuto delle lettere compromettenti scritte da lei, e finge di
leggere un foglio di carta normale; al che lei gli contesta il fatto che
quella non può essere una sua lettera, perché lei usa una particolare
carta da lettere, e allora l’avvocato difensore, toglie da sotto un
libro il pacchetto delle vere lettere che si rivelano della stessa carta
menzionata da Christine. Sbugiardata e costretta a rivelare che ha
mentito, la giuria assolve Vole per non aver commesso il fatto.
Finito tutto? No. Perché Robarts non è contento
come gli altri: gli sfugge qualcosa, gli sembra che tutto vada troppo
bene al suo posto. E infatti…
Infatti, mentre l’accusato è stato rimesso in
libertà ed è assediato dai cronisti, ecco che Christine, rimasta faccia a
faccia con Robarts, gli rivela l’altra faccia di quello che si è appena
concluso:
aveva giurato di aiutare il marito? Ebbene l’unico
modo per aiutarlo, visto che non gli era permesso dalla legge
testimoniare a suo favore, era di accusarlo falsamente, venendo poi
sbugiardata da delle lettere che lei stessa avesse scritto con
quell’intento. E la donna della stazione? Lei, sempre lei, con una
parrucca e dei denti finti: durante la guerra non aveva fatto la
ballerina, la cantante e l’attrice?
Robarts è sempre più sbalordito, ma nel tempo
stesso ammira quella donna che ha imbastito tutto quel castello di
falsità per salvare il marito dall’impiccagione; e che ha anche giurato
il falso.
E glielo ricorda. Ma ecco, l’ultima verità: lei, sì che verrà giudicata per falso, ma in cuor suo non ha giurato il falso.
Come? Certo. Quella sera il marito era davvero
ritornato più tardi di quello che aveva detto al suo avvocato difensore;
ed il sangue di cui era sporco non era il suo ma quello della vittima:
egli davvero l’aveva uccisa.
Queste ultime affermazioni vengono fatte, mentre il
marito è rientrato in aula: all’avvocato furente che gli da
dell’assassino, lui lo ringrazia per la difesa e gli dice che con le
80.000 sterline, il thermos che portava con sé, che avrebbe dovuto
contenere della cioccolata calda con cui accompagnare le pillole, e che
invece conteneva del brandy, lui glielo avrebbe fatto di oro puro! Non
solo. Gli ricorda che per la giustizia inglese, nessuno può essere
giudicato due volte per lo stesso reato. E’ così libero. Ed è stato lui,
Robarts, l’involontario mezzo della sua liberazione.
Ma a questo punto, in questa commedia degli
equivoci, ecco ancora un cambiamento di verità: a fianco di Vole,
compare la ragazza che era seduta durante il processo a fianco
dell’infermiera (che si era chiesta perché tante volte l’avvocato avesse
bevuto da quel thermos invece che agli orari prestabiliti per assumere i
medicinali) e che tante volte aveva pianto: è lei la ragazza
dell’agenzia turistica. Lei e Vole si abbracciano. E così anche
Christine si accorge di essere stata ingannata: rischierà il carcere per
un assassino che ora grazie a lei vivrà libero e felice assieme ad un
altra.
Finisce così? No. Perché…scopritelo voi, vedendo il film e scoprendo tante altro di questo grande capolavoro della suspence.
L’interpretazione della Dietrich avrebbe meritato
l’Oscar, ma forse era troppo costruita: si sapeva della sua maniacale
perfezione. Invece candidati all’Oscar furono Laughton e la moglie: in
realtà l’interpretazione di questo avvocato così misogino e insofferente
alla cure della sua infermiera, fatta di risposte
pungenti al limite della comicità, che si scontra con l’attaccamento
maniacale al lavoro da parte di lei, caricano il film di una verve
brillante, che, in un dramma come questo che altrimenti si sarebbe
appesantito, contrasta assai piacevolmente.
Chissà quante risate si saranno fatti i due
coniugi, quando magari replicavano sulla scena i mille battibecchi
casalinghi! Fatto sta che Laughton e Lancaster ben avrebbero meritato
l’Oscar. E forse qualche riconoscimento in più l’avrebbero anche potuto
riconoscere (e ce ne furono; ma anche solo una candidatura all’Oscar ben
sarebbe servita) alla O’Connor, la cui interpretazione della governante
bisbetica, invidiosa e gelosa dell’eredità che altrimenti sarebbe
toccata a lei, è veramente stratosferica.
Se le interpretazioni in taluni casi raggiungono
vette di espressività (va ricordato che sei nominations ebbe il film
agli Oscar, ma neanche uno lo conquistò), è da dire che, oltre la regia
di altissima intelligenza, il film, se conquista subito per la tensione
sempre ai massimi livelli, è in virtù di un montaggio estremamente
sapiente, che dona un ritmo palpitante e frenetico: nessuna scena a
vuoto, nessun fotogramma è mai inutile allo svolgimento dell’azione, e
lo spettatore viene condotto al catartico finale in men che non si dica
(circa due ore, che passano senza quasi accorgersene).
Insomma..un film grandissimo, cha vale sicuramente
più di una visione, e che qui ci si rammarica che assieme ad altri
grandi lampi di regie d’altri tempi non venga proposto in TV, al posto
invece di inutili futilità del tempo attuale.
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